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2STUDIO | Dieci anni in viaggio

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Prefazione di Sergio Rotondi (1)

I lavori riportati in questa bella pubblicazione testimoniano una attività di progettazione a tutto tondo, esemplare per impegno civico e per approfondimento disciplinare; lasciano intuire il forte sodalizio che ne è alla base. Innescato nelle aule universitarie del corso aquilano di ingegneria edile-architettura tale sodalizio si concretizza in un vero e proprio studio di progettazione nel 2009 quando i tragici accadimenti aquilani determinano nella coppia la decisione di far convergere le proprie forze a servizio della comunità d’origine, dopo un fruttuoso, lungo periodo in Spagna, a Valencia, dove entrambi si iscrivono all’ordine degli architetti. Dall’inizio, comunque, cementa il rapporto una comune, ferrea volontà di traguardare sempre oltre l’equilibrio raggiunto, quando questo fa intravedere la possibilità di cogliere meglio e più estesamente le problematiche molteplici del fare architettura oggi, se consente un avvicinamento più empaticamente in linea con il “sentire” contemporaneo.
Accomuna però Francesco Giancola ed Alessia Rossi anche una solida coscienza progettuale riguardo all’effetto, congenito all’architettura, di trasformare i luoghi, quelli pubblici, in particolare: un portato messo sicuramente alla prova, in modo perentorio, dal lavoro nei luoghi devastati dal sisma del 2009, ma che fa intuire anche, ai due progettisti, spiragli di possibile rinascita urbana.
Un talento e un onnivoro interesse iniziali nel maneggiare il progetto, si trasformano quindi nella dinamica, forte maturità attuale, capace di un controllo completo dei vari aspetti e delle varie fasi che concorrono ad un’opera di architettura. […]
La progettazione, che si affianca, come attività prediletta, all’insegnamento, esprime in modo lampante tale impegno, compatto e ed esteso a diverse scale e diversi ambiti di problematicità. Il piano di recupero urbano viale della Croce Rossa, fatto proprio dal Comune dell’Aquila, su iniziativa di 2Studio, mostra sagacia disciplinare e una lungimiranza critica nell’evitare ogni gesto emulativo da archistar; sono la natura e la storia che scorrono lungo le mura medioevali ad essere valorizzate, è una loro più pregnante fruizione pubblica che viene perseguita. Operazione sorretta da una meticolosa ricerca, conoscenza e consapevolezza delle vocazioni trasformative di ogni metro, angolo e albero del lungo percorso: dedizione e proposizione che procurano ai progettisti fondamentali crediti presso l’amministrazione pubblica. Significativo, molto significativo, al riguardo, il confronto fra le due realizzazioni aquilane finora più importanti di questa vicenda progettuale: l’edificio polifunzionale in piazza Santa Maria Paganica e il complesso abitativo nei pressi della piazza della Lauretana: il primo da poco terminato, il secondo in corso d’opera. Entrambi danno risposta a un aspetto di notevole incidenza sociale ma anche di spiccato interesse disciplinare: il destino di fabbriche non antiche, non vincolate, emergenti a segnare in modo discutibile, o visibilmente stridente, spazi doverosamente inquadrabili, invece, in un più consono senso urbano. E i due progetti citati incidono, ognuno con una propria, specifica strategia, nei due ambiti più diversamente problematici della città murata. Il progetto unitario piazza della Lauretana muove dalla necessità di ricostruire totalmente un pesante blocco d’abitazioni economiche, alto cinque piani, vistosamente incongruo nel dominare l’antico pomerio, all’inizio del viale principale di risalita al centro urbano. L’operazione, non semplice da appianare anche perché “partecipata” dai singoli proprietari, è estremamente interessante laddove la volumetria del blocco intensivo è ripartita in tre corpi di impatto urbano più delicato e meno rigido: un piccolo “borgo” con un articolato percorso centrale a rampe, che collega l’antica chiesa di S. Croce e, più a monte, la piazza della Lauretana. La composita volumetria, amplificata dal colore bianco, si snoda organicamente, senza enfasi, a contrasto con la più assertiva e geometricamente definita striscia muraria sottostante, assecondandone però nell’insieme l’andamento: creativo e potente colloquio, unicum a l’Aquila per quanto riguarda il paesaggio lungo la cinta urbica.
Ugualmente interessante e particolarmente ammirevole, l’intervento a piazza Santa Maria Paganica: operazione molto laboriosa, che ha modificato, con oculatezza, un luogo iconico della città, devastato dal sisma del 2009, dove ancora oggi la omonima chiesa, già ricostruita dopo il terremoto del 1703, rimane in uno stato estremamente compromesso.
Il tema urbano, in questo caso, è un oggetto dalla giusta rappresentatività, confrontabile con il patrimonio “antico” che incornicia la piazza senza immediatamente definirla data la variabile altimetria dell’invaso. L’intervento è nella parte sommitale e affianca il settecentesco, importante palazzo Ardinghelli (destinato a sede aquilana del MAXXI), sostituendo un blocco, di stampo moderatamente eclettico-storicistico, realizzato circa sessant’anni fa, esteso come il palazzo settecentesco, ma più avanzato verso la chiesa. Il progetto era vincolato al mantenimento della sagoma e delle destinazioni d’uso precedenti: uffici, a pianoterra, abitazioni nei tre piani superiori, ma i progettisti, di concerto con i proprietari, modificando in parte la distribuzione e l’articolazione spaziale interna ottengono consistenti miglioramenti. Giova così all’impatto spaziale della nuova fabbrica il prolungamento su tutta la facciata della loggia al quarto piano; sul lato opposto, lungo via Carlo Franchi, l’eliminazione di una precedente rampa di discesa ai parcheggi consente, con abili soluzioni progettuali, l’allargamento della strada. La configurazione e conformazione con cui l’intervento si “getta” nella città, le proporzioni applicate, l’espressività delle soluzioni di finitura (una elaborata, bicromatica trama di pannelli, incisa da vuoti ben organizzati), scandiscono un ordine rigoroso, coniugato con una vigilata poetica “del caos”. Gioco particolarmente calzante sulla breve facciata laterale, dove la bicromia è più estrosamente virata in un rafforzamento delle direttrici verticali, già decisamente stabilite dal taglio delle bucature, in un’ empatico riecheggiamento dell’autorevole facciata barocca contigua. L’impaginato è contemporaneamente plastico e leggero, pittorico e astratto, geometrico e metamorfico: contemporaneo.
Come il complesso della Lauretana, questo esperimento urbano andato in porto, e giustamente premiato, ricco di sottigliezze tecnologiche e soluzioni tecniche, realizzato sotto il controllo costante dei progettisti, “parla” in modo esemplare di “architettura della città”, un’accezione disciplinare massimamente espressa dall’architettura italiana degli ultimi decenni del secolo passato. L’eredità di tale cultura agisce ancora pienamente, informando forse proprio quanto di meglio si realizza oggi nel nostro paese: certo non in modo così compatto come accadeva allora, in condizioni politico-sociali-culturali diverse. Francesco Giancola e Alessia Rossi hanno perfettamente assimilato tutto ciò e lo utilizzano anche come lente critica con cui vedere la contemporaneità, con cui evitare emulazioni formalistiche, con cui superare, anche, la deriva tecnicistica in agguato, ad esempio, in un percorso progettuale attraverso l’istanza della sostenibilità. Una maturità, come s’è detto, aperta a sperimentazioni, a ricerche, specialmente attraverso la partecipazione a concorsi d’architettura, da sempre aspetto ragguardevole dell’attività di 2Studio.
Ed è particolarmente interessante che nell’avventurarsi verso ordini volumetrici e geometrici non comuni, nel prefigurare stimolanti esperienze per i fruitori, in rapporto anche al luogo e alla destinazione d’uso, vengano sapientemente sondate modalità diverse di giochi spaziali, come mostra ad esempio il confronto fra il progetto per il Museo della Scultura di Leganes (2011) e quello per La scuola che vorrei (2017). E ancora, è icasticamente evidente la caratura della soluzione per il concorso, Risalita via Rendina (2018, seconda fase), riguardante un collegamento
meccanizzato fra il Terminal di Collemaggio e la superiore via Rendina e costituito fondamentalmente due tralicci metallici, uno verticale e uno orizzontale. Il leggero insieme, tale da «minimizzare il consumo di suolo », ricco di soluzioni tecnologiche (il «sistema di sollevamento sincrono a magneti permanenti»), è principalmente un panoramico evento di catarsi sociale, aperto sull’Aquila e sull’intero “cratere”. Come scrivono Francesco Giancola e Alessia Rossi, con felice inventiva «ricorda, non a caso, il profilo delle gru, simbolo dell’attuale skyline della città in ricostruzione: presenze eteree, testimoni di un passato che è bene non si dimentichi del tutto». Ma, al di là del monito, le peripezie del nastro metallico che compone la pelle dell’inusuale torre – la cuspide terminale, il lato ripiegato rivolto verso il pendio che sale alle mura, e quello invece teso verso valle – racchiudono una sintesi di catastrofe e resistenza, innalzata al cielo.


(1)

Sergio Rotondi è professore ordinario di Architettura e Composizione Architettonica. La sua ricerca riguarda principalmente il progetto urbano come motore di sviluppo disciplinare, e si svolge secondo più angolazioni: l’operato di singoli progettisti, le trasformazioni urbane, l’impianto di sistemi architettonici complessi. I suoi interessi riguardano prevalentemente tematiche della modernità e della contemporaneità, con alcune eccezioni. In tutti questi ambiti ha prodotto libri, saggi, contributi in atti di convegno. L’attività di progettista si è svolta principalmente con la partecipazione a concorsi d’architettura. Fa parte del Comitato scientifico della «Rassegna di Architettura e Urbanistica»